DISSACRARE ISRAELE

In questi giorni mi è capitato di incrociare diversi post su X che, in un modo o nell’altro, ponevano con urgenza il tema della scelta (e della conseguente necessità di schierarsi) sui fatti di Gaza. Tra questi ne citerò soltanto due non perché siano i più illuminanti ma perché fanno riferimento a due concetti che mi serviranno in questa riflessione: il primo è il post di Gianluca Martino, nel quale la domanda (e l’urgenza) era posta in maniera molto chiara: l’Occidente è chiamato a scegliere tra Israele e i princìpi sui quali ha strutturato la sua esistenza. Ora di questi principi potremmo discutere a lungo: il diritto e le organizzazioni internazionali e forse, sopra a tutto, il riconoscimento della prevalenza del diritto rispetto alla forza bruta. Sono princìpi e strutture precari, imperfetti, che troppe volte abbiamo disatteso e aggirato ma senza mai metterne in discussione la necessità. Può sembrare una posizione ipocrita e sicuramente molte volte lo è stata, ma in quell’ipocrisia c’è anche la consapevolezza che, esauriti i mezzi della diplomazia e del diritto, quello che resta è la feroce legge del più forte. Tutto questo, per brevità, lo riassumerò da qui in poi con la formula “principi democratici”. L’altro è un articolo di Matteo Nucci apparso qualche giorno fa su minima&moralia in cui era presente una parola che già avevo in testa da un paio di giorni. Quella parola è “sacrificio”. Ci tornerò alla fine ma prima devo fare una premessa: le guerre non si fanno per i motivi di cui parlerò fra poco, ma per questioni molto più materiali (economiche e geopolitiche) di cui lascio ad altri il compito di parlare; però le guerre, esclusi quattro lobbisti delle armi e un manipolo di esaltati, non piacciono quasi a nessuno. Hanno perciò bisogno di una costruzione di senso che le renda se non auspicabili quanto meno sopportabili all’opinione pubblica, soprattutto nei paesi che necessitano di una certa quota di consenso della popolazione per governare. Questa riflessione è dedicata a questo aspetto: al come ci stiamo raccontando quello che accade e al perché ce lo stiamo, o meglio, ce lo stanno raccontando in questo modo. I recenti fatti di Amsterdam – e la copertura scandalosa, la cui evidenza ormai mi pare più che assodata, che ne è stata data dai media tradizionali – sembrano in qualche modo un’accelerazione e al tempo stesso una cesura di questo processo narrativo; credo quindi che sia il caso di fermarsi un attimo a riflettere su un punto: di cosa parliamo davvero quando parliamo di antisemitismo? Questo ha molto poco a che fare (dal punto di vista delle cause materiali) con i fatti di Gaza e molto a che fare con noi; le narrazioni non causano le guerre, di solito si usano per giustificarle, ma esse stesse rischiano di assumere vita propria come i mostri del sottosopra di Stranger Things ed esondare nel reale; un’accozzaglia confusa di slogan eterogenei del secolo scorso, appoggiata inizialmente dagli industriali italiani con l’obiettivo di ostacolare le proteste operaie, è diventata poi uno dei blueprint dei peggiori totalitarismi del secolo scorso i cui strascichi, dal punto di vista ideologico, paghiamo ancora oggi. Quegli eventi, tra le altre cose, hanno contribuito a produrre quello che consideriamo come male assoluto del ventesimo secolo o, per dirla con Durkheim, la più sacra delle cose sacre non religiose: la Shoah. Il sacro può essere positivo o, come nel caso dei tabù, negativo, ma ha sempre come caratteristiche fondamentali la straordinarietà rispetto al quotidiano e l’isolamento dalle cose profane. La Shoah non è certo l’unico oggetto sacro dell’Occidente: l’antifascismo (anche se oggi sempre meno), le Fosse Ardeatine, il nazismo, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il motto della Rivoluzione Francese, sono tutti oggetti sacri che hanno il compito di definire le comunità che li riconoscono come tali; non attengono al rapporto tra l’individuo e una qualche divinità ma solo un insieme simbolico che danno senso alla vita collettiva di chi li riconosce come tali. Chi osa profanarli o avvicinarli in maniera impropria è emarginato dal consesso civile come è necessario che sia. So bene che a volte così non sembra, ma non a caso gli attacchi o gli avvicinamenti a questi oggetti sono quasi sempre indiretti, tangenziali e abbastanza ambigui da poter essere ritrattati di fronte alla comunità cui si appartiene; non potrebbe essere altrimenti perché, se la comunità non accetta il sacrilegio, il rischio è quello di finire al rogo. D’altronde gli oggetti sacri non restano sacri per sempre, lo abbiamo visto in questi anni con l’antifascismo che a forza di eresie tollerate sta pian piano scivolando fuori del nostro pantheon condiviso; il paradosso del binomio sacro nazismo/Shoah è che, mentre da un lato abbiamo assistito nel corso degli anni a un progressivo restringimento degli interdetti nazisti, dall’altro c’è stato un allargamento degli oggetti sacri connessi alla Shoah: i campi di sterminio, quelli di concentramento, la stella di David, l’antisemitismo, le testimonianze, i testimoni, gli ebrei in senso lato, le pietre di inciampo, Liliana Segre, il murale di Liliana Segre a Milano, l’unilaterale diritto di difendersi, il naso di Elly Schlein, il polpo di pelouche di Greta Thumberg, eccetera. Logica avrebbe voluto che a una maggior sensibilità all’antisemitismo e al suo conseguente allargamento semantico corrispondesse un pari allargamento degli interdetti relativi al nazismo, eppure così non è stato: lo segnalo perché il fatto che ciò non sia avvenuto non mi sembra essere del tutto casuale e ancor meno casuale mi sembra il fatto che la maggior parte delle forte politiche che negli anni hanno provato a flirtare con quegli interdetti oggi siano tra i convinti sostenitori di Israele. Uno di questi oggetti sacri che si è imposto con sempre maggiore forza nel corso degli ultimi decenni è l’Israele dell’Olocausto: non l’Israele reale, fisico, politico, fatto di persone in carne e ossa con le proprie responsabilità individuali, di popolo e di Stato, ma un Israele che nell’immaginario collettivo di parte dell’Occidente non può essere scisso dai tragici fatti della seconda guerra mondiale, in primis forse per … Leggi tutto

DIARIO DI ANNA FRANKENSTEIN

Signoramìa, ha visto quello che è accaduto l’altra notte ad Amsterdam? La città di Anna Frank e delle prostitute in vetrina, che scandalo, e poi durante la vigilia del rinoceronte nella cristalleria, c’è stata una caccia all’ebreo! O forse un safari all’ebreo ma di questa cosa del rinoceronte non sono sicuro quindi mi sa che era una caccia. Ma quali tifosi, era proprio una caccia all’ebreo, ci sono state persone costrette a nascondersi nelle intercapedini dei coffee shop e a scrivere i diari sui telefonini, è grazie a loro se sappiamo come è andata. C’erano queste moltitudini di islamici radicali, erano ventimila, forse trentamila. E questi cinquantamila violenti giravano per le case a chiedere la tessera di ebreo e se c’era scritto ebreo sulla tessera ti menavano. Adesso io non sono ebreo non so come è fatta una tessera da ebreo ma immagino che ce l’abbiano se gliela chiedevano e questi centomila terroristi dell’ISIS hanno fatto cose inaudite, cose mai viste, pensi che erano così mai viste che i giornalisti hanno dovuto riciclare un video in cui i tifosi israeliani del Maccabi Tel Aviv inseguivano uno per picchiarlo per dare un’idea della gravità della situazione! Wilders, ma come chi è Wilders? Ma sì che lo conosce anche lei, è quel politico olandese con il cervello ossigenato, ha detto che ieri Amsterdam era come Gaza. Ma adesso lei se lo immagina come può essere per un fanatic del Tel Aviv, che tanti sono anche riservisti dell’IDF, ritrovarsi come a Gaza? Lei se lo immagina le difficoltà che deve affrontare un soldato israeliano per entrare mitra in pugno in quel posto dimenticato da Dio pieno di bambini pronti a farsi saltare in aria? Improvvisamente ritrovarsi nel cuore dell’Europa con gli stessi sguardi d’odio delle donne a cui hai sparato per settimane o addirittura mesi? Dev’essere un’esperienza devastante che non auguro a nessuno, neanche a quello del piano di sopra che mi scotola la tovaglia sopra i panni stesi.  Questi stavano lì, pacifici a cantare i loro inni tradizionali come morte agli arabi, sì, sono inni tradizionali, sono ottanta anni che ammazzano gli arabi per alcuni ormai è diventata una tradizione di famiglia, capisce uno sta lì che canta questi inni folcloristici tipici del suo paese e improvvisamente ti ritrovi circondato da duecentomila miliziani di hamas che ti guardano in cagnesco. Guardi lei che certe cose in Israele mica succedono! E alcuni pare che li abbiano pure arrestati perché hanno provato a prendere a catenate un tassista, ma si rende conto? Arrestare degli ebrei nel 2024? Se non è antisemitismo questo. Io mica sono sicuro che queste cose in Israele sarebbero permesse! Lì se provi a picchiare un tassista arabo non lo so mica se ti arrestano, al massimo ci sono un paio di partiti pronti a candidarti! Come a Gaza… capisce? L’orrore improvviso di un israeliano di ritrovarsi a Gaza, con quelle bandiere palestinesi appese alle finestre, uno magari ha appena finito il servizio militare, si prende una giornata di svago, arriva ad Amsterdam, la città di Baruch Spinoza e di Gullit, e si trova le bandiere palestinesi appese alle finestre. E come fa uno a trattenere quell’impulso di farle a pezzi e bruciarle? Un pogrom, erano settecentomila tassisti assassini professionisti di Hezbollah che li cercavano per fare una nuova notte dei tergicristalli, lo hanno detto alla tv, erano tassisti quindi sono abbastanza sicuro che fossero tergicristalli, uno in macchina aveva addirittura un forno a microonde e cercava un israeliano abbastanza piccolo da potercelo infilare dentro come hanno fatto il 7 Ottobre. Ma quale falso, lo hanno detto tutti i telegiornali, l’ho sentito alla tv e l’ho letto sui giornali, io sono uno che si informa sa, che cosa crede? Non l’ha sentito dei tentati rapimenti? Hanno fatto le prove di rapimento per esportare la tecnica del rapimento in Europa, però per ora hanno esportato solo un rapimento di prova, pare che un tifoso lo abbiamo rapito per 38 secondi. Lo sa lei che significa 38 secondi di rapimento? 38 secondi in cui ti ripassano davanti alla vita tutti i momenti brutti e i momenti belli della tua vita, il tuo primo bacio, il selfie con il pupazzo gigante vinto al luna park, l’università di Gaza fatta saltare in aria, le serate romantiche al cinema all’aperto di Sderot. Pensi che gli altri avevano già cominciato a raccogliere le fedi come nel ghetto a Roma il 16 ottobre del ’43 ma con 38 secondi non è che fai in tempo a raccogliere tanto. Poi per fortuna è tornata la calma, non si è fatto male quasi nessuno, sono tutti in Israele, lì possono cantare liberamente che a Gaza non ci sono le scuole perché non ci sono più bambini. Mica ce le abbiamo certe libertà noi, qua. — POSCRITTO SERIO (visto che alcuni faranno finta di non capire, spieghiamolo come ai bambini delle elementari) Questo è un racconto di fantasia che ha come oggetto la scandalosa e indegna copertura mediatica di quanto successo nei giorni scorsi a margine della partita ad Amsterdam tra Ajax e Maccabi Tel Aviv: molte cose sono inventate, alcune sono riferimenti puntuali ad alcuni fatti documentati di quanto avvenuto il 9 novembre. I più sono rimasticamenti di scemenze dette da giornalisti, politici, opionionisti e wannabetali su twitter . Qualcuno potrebbe sentirsi disturbato dal fatto che abbia deciso di giocare con un tema così serio, ma questa è una parodia più o meno fedele della distopia mediatica che buona parte dei media nostrani hanno provato a venderci come “pogrom”. E il rischio, che va avanti ormai da tredici mesi, è che questa sovrapposizione tra ebrei e israeliani, e questa strumentalizzazione di ogni fatto e critica fatta a Israele come manifestazione di antisemitismo, faccia breccia: è un rischio grave, perché qualcuno potrebbe crederci e pensare che gli ebrei tutti siano responsabili di quello che sta facendo Israele. E io non credo che valga la pena, né che sia intelligente, né che sia morale, usarli per giustificare i crimini del governo israeliano. Nel racconto … Leggi tutto

DUE CONSIDERAZIONI SULLA SCALA HITLER

Questo è un raro caso (oddio, sull’ex twitter questa rarità è sempre meno “rara”) di risposta idiota a un tweet idiota. Andiamo con ordine. Se i sionisti sono peggiori dei nazisti allora i nazisti, in quanto migliori di quest’ultimi, hanno combattuto contro gente ancora più cattiva https://t.co/6oKna5olJI — Bruno Montesano (@brun_montesano) August 27, 2024 Partiamo dalla risposta di Bruno: la risposta non ha senso (io a dire la verità ci ho messo pure un po’ a capirla) ed è, per certi aspetti, pericolosa: se da un lato non possiamo mai smettere di denunciare il pericolo che l’opposizione a Israele sfoci in forme più o meno consapevoli di antisemitismo, equiparando l’operato del governo Netanyahu a quello degli ebrei tutti, dall’altro non possiamo far rientrare questo concetto dalla finestra dichiarando che i nazisti hanno combattuto con i sionisti (i nazisti hanno sterminato gli ebrei in quanto ebrei, lasciamo perdere i loro rapporti con i sionisti). Non possiamo pretendere che chi si oppone a Israele mantenga (come è giusto e sacrosanto che sia) la differenza tra governo israeliano, popolo israeliano ed ebrei al di fuori di Israele, se poi siamo noi i primi a riaccomunarli in un unico tutto indistinto quando ci troviamo sulla difensiva. Insomma non è che ci possiamo mettere a fare il gioco delle tre carte (sionisti, ebrei, Netanyahu) a seconda di come ci fa comodo. Perché poi verrà la tentazione a qualcun altro di fare lo stesso e non è detto che quel qualcun altro sia in buona fede come noi.   E ora veniamo al tweet di Karem, che alla fine è il classico hot take che secondo me, in questo caso e in questo modo, rischia di fare più male che bene alla causa. Mi sforzo di leggerlo in senso provocatorio, simbolico, traslato, ma alla fine boh, mi sembra che non serva a niente. Per prima cosa perché mi pare abbastanza inutile fare le classifiche della cattiveria come quando stavamo alle elementari ed era fondamentale dover decidere se fosse più forte la tigre o il leone. Secondo perché mi pare che, chi volesse prendere sul serio quell’affermazione e smentirla, avrebbe gioco facile a dimostrare che il nazismo, per numeri e aspirazioni totalitarie sul mondo, giocasse proprio su un altro campionato. Mi pare lo stesso stupido gioco che ci ha portato in questi ultimi vent’anni a combattere un Hitler ogni sei mesi a seconda dei cambi dell’agenda geopolitica internazionale. Ok, se è una battuta provocatoria la prendiamo come una bushata qualunque e andiamo avanti, altrimenti mi pare un terreno scivoloso. Questo non significa che tra le barbarie del mondo non si possano tracciare paragoni e che non possano essere rilevati punti di contatto e somiglianze tra quello che sta facendo Israele in questi mesi a Gaza e l’esperienza nazista, come ha fatto qualche giorno fa Omer Bartov sul Guardian o come ha fatto Masha Gessen nel saggio in cui paragonava Gaza a un ghetto nazista (per citare due esempi concreti di come quel discorso si possa fare, e abbia anche senso farlo). Poi naturalmente quello che sta succedendo a Gaza avrà, oltre gli innegabili punti di contatto con altri orrori della storia, anche le sue caratteristiche specifiche e peculiari, come la narrazione messianica che da elemento puramente propagandistico di piccole sacche di ultrareligiosi si sta trasformando in un discorso pubblico in grado di condizionare il governo. Perché poi alla fine la natura umana quella è, possiamo sempre riconoscerci sia il fondo comune (e la barbarie e la violenza ne sono parte) sia l’unicità propria di ogni essere umano (e di ogni comunità, e di ogni popolo). È proprio l’idea di una classifica che mi pare risposta infantile, per cui dobbiamo star qui a stabilire se il sionismo sia peggio o meglio del nazismo, per incastrarci in sofismi classificatori che si avvitano in —dal punto di vista numerico, però se guardiamo alla violenza gratuita, ma la componente di fanatismo religioso eccetera. Ha veramente senso costruire questa Scala Hitler della cattiveria umana? Assodato che con Hitler tutti quanti intendiamo (tranne qualche piccolo residuato storico negazionista) il male assoluto, non soltanto in senso concreto ma anche e soprattutto come simbolo del male assoluto, abbiamo dei criteri oggettivi per costruire una scalahitler che permetta un qualche tipo di misurazione sensata? E poi, anche fosse che questa scalahitler oggettiva riusciamo a metterci d’accordo e la costruiamo, che ci facciamo? Qual è il valore hitlerometrico di soglia per intervenire? Cioè se poi viene fuori che il sionismo ha un valore pari a Hitler meno meno, o di 0.8 Hitler, allora va tutto bene? Non è lo stesso discorso, speculare, di quelli che rispondono alle quotidiane denunce dei crimini israeliani tirando in ballo l’Iran? Non sognano anche loro, dopotutto, una scala di malvagità che certifichi che Israele è sotto la soglia di tolleranza? Davvero vogliamo imbarcarci in questo tipo di discussione? POSTILLAGià che ci siamo, a questo punto aggiungo due considerazioni sparse su un fenomeno equivalente e che rischia di produrre una dinamica simile: la polarizzazione intorno al termine genocidio. Non credo che usare il termine genocidio per quello che sta succedendo a Gaza sia arbitrario, mi pare anzi che le testimonianze arrivate in questi dieci mesi ne giustifichino ampiamente l’uso: le numerose dichiarazioni di stampo genocidiario di esponenti del governo israeliano, i comportamenti messi in campo dall’IDF, le denunce fatte dalle associazioni internazionali e le argomentazioni degli studiosi del settore, per finire con l’accettazione da parte di ICJ della fondatezza dell’accusa del Sudafrica, che ha deciso di valutare nel merito (riconoscendo che quanto meno non è un’idea campata per aria ma qualcosa che, se non altro, vale la pena di essere esaminata). Il punto non è se sia lecito o meno usare il termine genocidio per descrivere quello che sta succedendo; il dubbio è se una polarizzazione totalizzante intorno a questo termine sia utile. Il dibattito pubblico che sta sedimentando sotto questa discussione sembra ormai avvitarsi verso una situazione del genere: da un lato la posizione “c’è un genocidio, è un fatto gravissimo su cui dobbiamo intervenire immediatamente” … Leggi tutto

L’uso politico dell’orrore

Oggi ho scritto questo post su X che ha fatto incazzare un sacco de gente: Israele impedisce agli ostaggi di parlare con la stampa. Cosa che Hamas e AP non fanno con i detenuti rilasciati. Ma occhio che una è una fulgida democrazia e l’altra na feroce dittatura. Naturalmente si è scatenata tutta una serie di risposte squilibrate a cui forse non varrebbe manco la pena di rispondere, ma a me piace rispondere, quindi lo faccio qui, una volta in comune per tutti.  Chiariamo due punti: il primo è che l’unica conferenza stampa pubblica rilasciata da un ostaggio è quella di Yocheved Lifshitz che, per usare un eufemismo, non è andata benissimo dal punto di vista della comunicazione e ha scatenato ondate di polemiche su tutti i media israeliani. Ora, naturalmente possono esserci varie spiegazioni sul perché tutti gli altri ostaggi abbiano smesso di rilasciare dichiarazioni in pubblico, ma la più probabile è che Israele abbia seguito lo stesso approccio dell’FBI, che ha proibito agli ostaggi americani liberati di rilasciare interviste.Anche sul perché abbia preso questa decisione possono esserci diversi spiegazioni: una possibilità è la paura che se venissero fuori i dettagli sulle torture di Hamas questo metterebbe in pericolo la vita degli altri ostaggi ancora in cattività (così mi hanno detto, sempre nelle risposte su X). Potrebbe essere un buon argomento, se non fosse che le poche informazioni fatte filtrare sono proprio sulle torture di Hamas. E qui veniamo al secondo punto, con il quale rispondo alla domanda, legittima, di un utente X (è incredibile, ma c’è ancora qualcuno con cui si riescono ad aver discussioni civili). “Non è che in questo modo cercano di nascondere il fatto che i bambini, gli anziani, le donne israeliane rapite sono stati trattati con umanità e rispetto e quelli uccisi lo sono stati dalle bombe israeliane? È questo che vuoi lasciar capire?” È una domanda provocatoria ma che merita una risposta e che mi porta al secondo punto: no, io non credo che “trattati bene” siano le parole più giuste per definire la condizione di cattività di un ostaggio, qualunque essa sia: essere stati portati via dalla propria casa senza sapere cosa ne è stato dei tuoi parenti e senza neanche sapere se il giorno dopo sarai ancora vivo, con le bombe che ti cascano in testa, senza neanche sapere se verranno a liberarti, se hanno accettato uno scambio, se hanno deciso di sacrificati, se chi ti tiene prigioniero il giorno dopo non ti userà come ultimatum o pungiball o inizierà a uccidere gli altri per rappresaglia. Credo che basti questo, a prescindere da tutto il resto, a renderla orribile. E neanche faccio fatica a credere che gli ostaggi possano aver subito torture fisiche e mentali, perché di questo ne abbiamo avuto già avuto prova il 7 Ottobre; e anche nell’unica conferenza stampa disponibile, quella di Yocheved Lifshitz, gli episodi di violenza subita vengono raccontati apertamente. E allora, che cosa spinge Israele a “moderare” le interviste, visto che è dal 7 Ottobre che siamo immersi in un continuo carosello di orrori?  Perché una “fulgida democrazia” ha bisogno di controllare l’opinione pubblica? Perché far filtrare solo i racconti più agghiaccianti, se l’obiettivo è tutelare gli ostaggi ancora in cattività?Perché il problema, secondo me, è proprio quello: perché, come nel caso della Lifshitz, potrebbe venir fuori qualche particolare che intralci il percorso di “mostrificazione” iniziato il 7 Ottobre. Potrebbe venir fuori addirittura che non tutti gli ostaggi sono stati torturati, che addirittura a qualcuno di loro non sono state inflitte ulteriori violenze gratuite oltre al trauma del rapimento, solo per il puro gusto sadico di infliggere violenza. Insomma potrebbe incrinarsi il racconto disumanizzante alimentato dalla retorica sui bambini decapitati, cotti nei forni, Dresda, le bombe atomiche, gli animali umani, i nazisti, i peggio dell’ISIS, le mosche da schiacciare, Gaza da bruciare, radere al suolo, rimpicciolire o riportare all’età della Pietra. Con le rivendicazioni pubbliche delle punizioni collettive, l’appello a non far entrare non un solo aiuto umanitario ma soltanto bombe, il programma di deportazione in Egitto o la diaspora dei profughi in giro per il mondo alla quale devono contribuire i volenterosi amici di Israele accogliendo qualche decina di migliaia di palestinesi a testa. Senza questo racconto disumanizzante non sarebbe possibile la sproporzionata reazione che abbiamo visto scatenarsi su Gaza con una violenza e un’intensità tale che ha pochi precedenti nella storia recente. Senza quello non è possibile stabile quel frame di superiorità morale secondo il quale se un palestinese parla di violenze subite SICURAMENTE sta mentendo e lo fa per mettere in cattiva luce Israele e SICURAMENTE è stato istruito da Hamas, mentre se una vittima israeliana racconta di torture SICURAMENTE non è stata istruita dall’IDF e non ha nessun interesse nel mettere in cattiva luce i palestinesi.Senza questa retorica, per dirla con Lapid, a raccontare le cose obiettivamente si fa un favore ad Hamas. E lui ha fatto il giornalista per una vita, forse possiamo credergli.Perché senza questa narrazione non sarebbe possibile stabilire quel gap di moralità sufficiente a giustificare qualsiasi massacro indiscriminato di civili, non ultimo un bambino di otto anni in Cisgiordania derubricato a terrorista da molti commentatori filodemocratici (sempre su X); a ignorare o legittimare qualunque atto di barbarie gratuita, purché nostra; cose  che non potrebbero essere giustificate in nessun altro modo se non postulando l’inferiorità culturale e valoriale e l’ingenita barbarie del nemico; in questa come in ogni altra guerra di civiltà, il nostro essere superiori diventa giustificazione della nostra violenza, non importa se siamo noi gli occupanti, non importa se siamo noi i colonizzatori, le nostre bombe sono moralmente superiori e quindi il prezzo di vite umane che reclamano è sempre e in ogni caso accettabile. Ma guai a riconoscere quello stesso diritto a quelli che opprimiamo: la loro protesta deve essere civile, pacifica, fatta con i fiori, limpida da ogni macchia morale, loro devono protestare all’interno delle modalità stabilite come legittime dall’occupato, e soprattutto non possono sperare di competere con la nostra violenza civile, perché la loro violenza è barbara, è moralmente inferiore, gratuita, indiscriminata … Leggi tutto

LA FIACCOLATA DELLE VANITà

Ieri la politica italiana ha fatto uno dei suoi piccoli show di provincia. Giorgia Meloni s’è recata in visita alla sinagoga e in uno slancio d’entusiasmo ha proposto de intitolarla a Giorgio Almirante.  Qualcuno della folla è rimasto un po’ perplesso ma per fortuna è arivato Cerasa giusto in tempo che ci ha messo una pezza e ha detto, non ci perdiamo proprio adesso,  vi porto tutti all’arco de Tito. Scusa, j’ha fatto uno, ma de tutti i monumenti romani proprio quello che celebra lo sterminio degli ebrei? Ma no, ha risposto Giubilei, quello è il Tito comunista, ce so’ cascato pure io, capita de prende un abbaglio storico. No, no quello è proprio er Tito Romano, quello che ha distrutto er tempio de Gerusalemme, guarda ce so’ pure i bassorilievi. A quer punto Calenda è zompato sur bassorilievo con l’agilità de un cinghiale e er piglio della guida turistica e ha attaccato er pistolotto: è vero, hanno sterminato gli ebrei e distrutto il tempio, ma l’hanno distrutto in simpatia, con la civilità tipica dei romani: guarda i bassorilievi, mica j’hanno fatto i nasi a punta come Vauro!Sì va bene tutto, lasciamo perde il è ma questo no: uno vestito da SS alla manifestazione no! Ma è un omaggio, je fa Bignami, ho letto che ce stanno pure gli ebrei ashke-nazisti. Ashkenaziti! Vabbè ma ho messo pure la svastica a sette braccia! A quel punto interviene Rampelli che je tappa la bocca e incomincia il cazziatone: io te l’ho detto che non dovevi avventuratte con le lingue straniere ma restà sull’idioma italico: sefa-arditi! A noi! Ma che state a di’? Vabbè, taja corto Gasparri, adesso però non me pare il caso de farne un dramma, lo sappiamo che tutto sommato le SS non erano poi proprio naziste naziste, cioè erano naziste ma no come i russi. Ma in Israele c’è il 15% de ebrei russi!Salvini a quer punto non je pare vero: vabbè manfatti lasciamo da parte gli amici russi e concentriamoci sul fatto che dall’altra parte ce stanno gli islamici. L’islam è nemico dei gay! aggiunge Scalfarotto. Interviene la Roccella: è vero e se permettete quello è lavoro nostro, non permetteremo ai musulmani di maltrattare i gay al posto nostro. I gay nostri ce li discriminiamo benissimo da soli!  Giusto, replica a mezza bocca Scalfarotto, non proprio convintissimo dell’argomentazione, anch’io preferisco la discriminazione italiana a quella araba. Ti correggo Ivan, gli risponde Matteo, rimaniamo sui palestinesi e non coinvolgiamo gli amici sauditi in questa questione. Ma come non li coinvolgiamo? Ma i sauditi sono tra i principali finanziatori del terrorismo islamico! Non c’è problema, dice tronfio Valditara facendosi spazio fra la folla: ho preparato un decreto per proibire tutte le altre religioni a scuola. Guai a chi tocca il crocefisso! Ma noi siamo ebrei, mica cattolici! Vabbè, stai a fa’ caso, comunque mo ce metto ‘na toppa, aggiungo che vale solo contro quelle religioni barbare che praticano le mutilazioni genitali. Ma noi tecnicamente pratichiamo mutilazioni genitali! Sì ma non è un problema, replica la Roccella, perché stiamo preparando un altro decreto che impedisce di parlare di sesso a scuola, quindi non se ne accorgerà nessuno. No scusate ma perché c’è una stella di David gialla proiettata sull’arco? È una cosa di gemellaggio Israele-Ucraina, risponde pieno d’orgoglio Crosetto, a supporto di tutte le guerre giuste! Ma così sembra la stella dei campi di concentramento! Ma no, dice la Boschi cercando di tenere la stella nell’inquadratura del selfie, si vede benissimo che è giallo ucraino, secondo me è molto chic, quasi radical chic. Scusa Pina Picerno puoi chiamare la Schlein e chiedere se ci presta l’armocromista? Tajani, imbarazzato dalla situazione, cerca una via d’uscita: non vi preoccupate, fra un po’ la leviamo e proiettiamo in diretta i bombardamenti di Gaza.  Mi dispiace Antonio, lo corregge Sangiuliano, purtroppo Netanyahu vuole mantenere l’esclusiva per twitter e non ci ha dato i diritti gratis. ‘Sto purciaro, è il commento sconsolato di Nordio. Ah, sempre meglio! Adesso anche con gli stereotipi sull’avarizia degli ebrei? Ma no davvero, non intendevo quello è che io… cioè… volevo dire… viva Sharon! Viva Sharon Stone! Gli fa eco Giubilei! Ma non quella Sharon, sbotta Rosato, Ariel. Giubilei sgrana gli occhi: La sirenetta era ebrea? Un silenzio imbarazzato cala tra i presenti e in questo silenzio si inserisce Lollobrigida: vabbè, io direi che s’è fatta na certa, a questo punto propongo di chiudere la manifestazione con un bel piatto di carciofi alla romana. Veramente, fa Parenzo, se chiamano carciofi alla giudìa. Lollo a quer punto se incazza manco j’avesse insurtato la madre. Io non tollero questo attacco al patrimonio culinario italico, io difendo il made in Italy, viva i carciofi alla romana! alla giudìa! Alla romana! Se ferma per caso un passante, attratto da quella curiosa canizza, e chiede: Ma che succede? Niente de che, se stanno a litigà l’esclusiva sui carciofi. Quello se guarda intorno, e poi fa: e perché? Me pare che qua ce ne stanno abbastanza pe’ tutti.—P.S.ho scritto ‘sta cosa perché oggi avevo bisogno di ridere per alleggerire la tensione. Ridere per ritrovare la voglia di affrontare il circo ipocrita di pagliacci disposti a strumentalizzare qualsiasi cosa a servizio dei loro miseri interessi di bottega, della scaramuccia politica di quartiere. Ma a noi non ci viene il dubbio di essere leggermente presi per il culo? —P.P.S.Naturalmente, la maggior parte di questi “divertentissimi” siparietti sono inventati. Alcuni, tuttavia, corrispondono alle vere affermazioni dei politici: lascio al lettore il compito di distinguere gli uni e gli altri. 

MORIRE DI TERRORE

Oggi vi racconterò una storia. Forse qualcuno di voi la conosce già, molti probabilmente no. È la storia della Grande Marcia del Ritorno. Come tutte le storie che ascolterete in questi giorni, è un pezzo della Storia tutta, e un pezzo da solo non può spiegare 70 anni di conflitto. Questa storia può però aiutare a rispondere a una domanda che molti in questi giorni ripetono ossessivamente: ma perché i palestinesi non scelgono le proteste pacifiche? Questa è la storia di quando i palestinesi scelsero di protestare pacificamente. È il 2018 e l’America di Trump si prepara a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, nonostante la capitale riconosciuta a livello internazionale sia Tel Aviv e l’ONU abbia stabilito l’illegalità dell’occupazione di Gerusalemme Est e dei territori limitrofi (è il Tribunale Internazionale dell’Aja che la definisce “nazione occupante”, non io, ma questa è un’altra storia). A questo punto a Gaza la popolazione inizia una protesta, che prenderà il nome di Grande Marcia del Ritorno. Gaza è una striscia di terreno di una quarantina di chilometri, da più di quindici anni completamente isolata dal mondo, sempre a un passo dalla catastrofe umanitaria, circondata da una recinzione militarizzata e dalla quale non è possibile allontanarsi. Dentro questo campo di concentramento, probabilmente il più grande della storia contemporanea, vivono 2 milioni e trecentomila persone. Quasi la metà di questi sono minori, quasi il 70% della popolazione di Gaza ha i genitori che sono arrivati qua dopo essere stati costretti a fuggire dai territori conquistai e occupati da Israele. La manifestazione si chiama “grande marcia del ritorno” proprio per questo: è una protesta pacifica per affermare il diritto dei rifugiati a tornare nei territori che sono stati loro sottratti.Le proteste iniziano il 18 marzo del 2018 e proseguono fino a metà maggio (giorno del trasferimento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme) e oltre, tutti i venerdì, una specie di Friday for Future in salsa palestinese in cui si chiede il rispetto del diritto dei profughi e la fine del blocco che sta strangolando Gaza. Sono proteste a cui partecipano circa 35mila persone. Alla fine delle proteste si conteranno più di 250 morti (tra cui una cinquantina di bambini). Tra le vittime ci sono anche tre medici e due giornalisti. I feriti sono così tanti che è difficile anche quantificarli: si va dai diecimila agli oltre trentamila, anche in questi casi migliaia di essi sono bambini sotto i quattordici anni. Tutti palestinesi. Alla fine delle proteste non si registrerà un solo israeliano ucciso o ferito gravemente (un solo soldato con escoriazioni lievi). E credo che questo, almeno in parte, possa contribuire a rispondere alla domanda iniziale. Quando a un manifestante pacifico rispondi con le fucilate, in sostanza stai dicendo a quel manifestante che il modo in cui protesta è irrilevante. In scala più grande lo ritroviamo anche con l’ANP, che in cambio dell’abbandono dei metodi violenti ha ricevuto in cambio esattamente niente, ormai ridotta a fare da polizia amministrativa del regime israeliano in un territorio sempre più frammentato dalla continua espansione a macchia di leopardo dei nuovi insediamenti dei coloni e in cui i palestinesi (e gli arabi in generale) vivono in regime di apartheid. O i numeri stessi dei morti e dei feriti degli ultimi anni che, anche al lordo degli attacchi terroristici, ci dicono come il “diritto alla difesa” di Israele si sia trasformato negli anni in un diritto di rappresaglia, ovvero una cosa che non il diritto non ha nessuna relazione.  Questa è una storia, una storia che non racconta tutta la Storia degli ultimi 70 anni e oltre, come tutte le storie che ascolterete in questi giorni. Una di storia di parte, come tutte le storie che ascolterete in questi giorni. Neanche questa storia è un inizio di qualcosa, come non lo è quello che è accaduto in questi giorni. Ma è una di quelle storie che di solito ci dimentichiamo di raccontare e sulle quali l’Occidente è disposto a chiudere gli occhi (e io non credo che l’Occidente possa muoversi con gli occhi chiusi in un contesto come questo). È un processo di rimozione collettivo che non è casuale, ma che serve appunto a negare la realtà dei fatti, perché solamente in una realtà artificiale si può raggiungere un totale stato di indifferenza da riuscire a considerare normale l’organizzazione di un rave a cinque chilometri da un campo di concentramento (e nonostante questo penso che nessuno meriti di essere trucidato semplicemente perché è talmente anestetizzato da non rendersene conto).   Perché in questi giorni di cose ne sono accadute tante, di legittime e di illegittime e lo sforzo dovrebbe essere quello di distinguerle, di provare a comprenderle rifuggendo la tentazione del richiamo alle guerre sante, alle crociate per la libertà, eccetera. Se quindi siete capitati in cerca di una condanna del terrorismo, la troverete, alla fine di questo ragionamento, non prima, e molto probabilmente non vi piacerà. Perché ci sono alcune cose che dobbiamo tenere presenti, se vogliamo provare a inserire un qualunque ragionamento all’interno della cornice del diritto internazionale (se ancora ci interessa il diritto internazionale) e una di queste è la seguente: che un popolo “ha il diritto inalienabile a lottare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla occupazione straniera con tutti i mezzi a disposizione, compresa la lotta armata”. Compresa la lotta armata, come stabilito dall’ONU, non da me. Quindi, se siete venuti qui pensando che il terrorismo e la lotta armata siano la stessa cosa, mi dispiace darvi una brutta notizia: possiamo discutere se la lotta armata sia utile al raggiungimento di determinati obiettivi, se in alcuni contesti esistano alternative praticabili ad essa, e preferibili, ma non della sua legittimità (e al massimo possiamo limitarci ad una discussione teorica sull’argomento perché non me pare il caso di pretendere di imporre a un popolo la modalità con cui deve liberarsi dell’occupante).La seconda cosa che dobbiamo tenere presente, in un contesto di occupazione, che le modalità dello scontro sono decise per lo più dall’occupante … Leggi tutto

LA PESCA DELLA DISCORDIA

C’è sto spot de Esselunga che ha suscitato quarche piccola polemica. Mo prima de addentracce in discussioni filosofiche io me volevo fermà sul fatto che c’è proprio un motivo tecnico per cui lo spot non funziona. Perché dopo i primi dieci secondi de dramma familiare in cui la madre se perde la fija perché catturata da un cespo de insalata, c’è sta scena della pesca in primo piano sur nastro della cassa che te sta proprio a “telefonà”, pe’ usa un gergo tecnico, er fatto che se la cassiera non te l’ha tirata in faccia perché j’hai portato na pesca da sola, senza mettela nella busta, senza pesalla e stampà l’etichetta e senza manco usa i guanti de plastica, allora deve esse proprio ‘na pesca speciale: se dopo trenta secondi già hai abbandonato qualunque pretesa de verosimiglianza è perché me vòi proprio comunicà l’importanza de sta pesca (pèsca mannaggiarcazzo ma io non so uno che se fissa co’ la dizione me va bene pure ‘sto neo-neorealismo de la madre analfabeta che non riesce a di’ na frase in italiano standard e vive in un loculo de 400 metri quadri).  Mo m’hai appassionato a sta metafora ortofrutticola, che infatti da adesso in poi io non me la filo più ‘sta regazzina triste, se piagne, se ride, chissenfrega io vojo sapé della pèsca e infatti appena la vedi, la regazzina, che inciafruja dentro lo zaino lo capisci subito che sta a pià quella, perché vabbè che ormai c’ho la soglia d’attenzione de un criceto mbriaco ma so’ passati trenta secondi da quanno m’hai messo le luci ar neon lampeggianti co’ scritto: RICORDATE DELLA PERSICA!, e io me lo ricordo, l’ho capito er giochetto, anche perché non lo usano manco più le telenovele ce sarà un motivo. Così m’hai tolto quarsiasi sorpresa, è dall’inizio dello spot che ormai sto a aspettà quello che me devi di’ su sta cazzo de pesca. M’hai lasciato co’ la pesca unica latrice der messaggio (che vor dì che tutta la responsabilità dello spot sta ‘ncoppa a ‘sta perzeca che manco Oppenheimer co’ la bomba atomica) e io allora me aspetto quarcosa tipo che la piccola Aria Stark depressa che m’hai voluto raccontà, ar padre j’ha avvelenato la frutta cor cianuro de potassio pe vendicasse d’avvece du genitori cojoni, o che ce se strozza direttamente er padre co’ un improvvisa virata pulp, che invece de la pesca tira forì na cipolla e invece no: è proprio la pesca.  E co’ la pesca t’ariva er messaggio e tutta la pantomima de risposte: te la manna mamma, ok poi je telefono eccetera. Perché a quer punto mica te potevi accontentà de di’ papà t’ho pensato oggi mentre facevo la spesa e t’ho comprato questa, che era roba normale, no, me deve diventà la pesca simbolica der trauma infantile der fijo de separati condannato all’infelicità eterna perché er sacro vincolo der matrimonio s’è spezzato e non potrà esserci mai piena gioia al di fori de quer perimetro, pe finì cor padre che guarda la finestra chiusa co’ la consapevolezza che non andranno più insieme a fasse insultà dalla cassiera che manco la frutta erano capaci de comprà, poi dici hanno divorziato. Però lui pesca la pronuncia bene, e forse è questo er messaggio profondo che ce vòle trasmette esselunga: che solo chi apprezza le pesche ha accesso ai sacri misteri della corretta dizione.

L’ANSIA IN PILLOLE

L’ANSIA IN PILLOLE Io la tv non la guardo più tanto, mi capita soprattutto di farlo quando vado a fare visita ai miei, quindi non lo so di preciso se è effettivamente una cosa nuova o una roba vecchia che mi è capitato di vedere per la prima volta solo in questi giorni. In realtà è una cosa piccola, non è una di quelle cose per cui partono le indignazioni generali, non c’è nessuno scandalo dietro, niente di illegale, solo una di quelle cose piccole che ti fa pensare (almeno a me lo fa pensare) che abbiamo sceso un altro gradino in questa inarrestabile marcia verso l’abisso. Mentre andava la pubblicità tra una soap e l’altra di quelle che vede mia madre è comparso lo spot di un farmaco per l’ansia. In realtà per l’ansia “lieve” perché nel nostro paese non si possono fare (ancora) pubblicità per farmaci che richiedono prescrizione medica. Quindi c’era questa pubblicità con la musichina allegra per l’ansia lieve, dove naturalmente ansia era scritto grande e lieve piccolino, tante volte, in tante immagini diverse: sempre con ansia scritto grande e lieve scritto piccolo in un angolo. Ora la prima domanda è: a chi è rivolta questa pubblicità? Perché io ho l’ansia, vedo la pubblicità per l’ansia-scritta-grande lieve-scritto-piccolo e magari penso: la provo, magari la mia ansia è lieve, magari funziona. Ci sta, poi se non funziona in caso vado dal medico. Sì ma questo io, questo io dell’ansia lieve, chi è? E allora mi è venuto in mente lo spezzone che gira in questi giorni online sulla ragazza in lacrime davanti al ministro per l’ambiente che dice che ha l’eco-ansia. E il ministro risponde e poi poco dopo si commuove e si mette a piangere anche lui. Ho letto, online, che il ministro prova rispondere da ministro e poi l’uomo ha la meglio, sul ministro, e allora piange. A me invece sembra esattamente il contrario, le sue parole e quel misto di commozione mi sembrano proprio la rappresentazione dell’uomo che soccombe al ministro. Mi sembrano dire: ti capisco ragazza mia, capisco il tuo dolore, piango insieme a te, come nonno, perché penso che i miei nipoti condivideranno la tua stessa sorte. Ma io sono un ministro: il mio ruolo è far sì che questo sistema vada avanti così, il mio essere ministro è incompatibile con un cambiamento significativo dello stato delle cose. Tu pensi che potrei fare qualcosa, ma il motivo per cui sono stato nominato ministro è esattamente perché non lo farò. E quindi piango con te, piango la tua impotenza e la mia e il fatto che a questo tu e i miei nipoti dovrete rassegnarvi e con quest’ansia dovrete imparare a conviverci. Lacrime dell’ineluttabile come quelle di Elsa Fornero. L’eco-ansia è un’ansia lieve? È questo che stiamo dicendo ai ragazzi? Prendetevi la pillolina per l’eco-ansia lieve e vedrete che tutto andrà bene. Che poi l’implicazione successiva è che se la pillolina per l’ansia non funziona significa che hai un’ansia non lieve e allora a quel punto devi proprio andare dal medico e curarti. Però poi a me in testa rimane un’altra domanda: ma perché quella ragazza ha l’ansia? Perché così tanti giovani oggi hanno l’ansia? E allora mi è tornata in mente una frase di Fisher con cui stavo preparando un poster di futurabilia: “l’ansia è lo stato emotivo correlato alla precarietà (economica, sociale, esistenziale) che la politica neoliberista ha normalizzato”. E questo è il motivo per cui l’altro giorno, guardando lo spot, ho avuto la sensazione di scendere un altro gradino: perché ora c’è tutto. C’è la precarietà, c’è la ansia e da qualche giorno (o forse molti di più) c’è la normalizzazione via spot. L’ansia è un elemento ineliminabile di questo modello di sviluppo, fattene una ragione. In fondo l’ansia è produttiva, non è una depressione che ti butta in un angolo, che ti lascia steso sul letto senza voglia di fare niente, entro una certa soglia un po’ d’ansia ti spinge a impegnarti di più, a dare il massimo. L’ansia non solo è compatibile con il sistema, l’ansia è addirittura funzionale al sistema, basta tenerla sotto controllo affinché non ecceda certi limiti e diventi paralizzante e improduttiva. È normale ma non preoccuparti, abbiamo la soluzione: il tuo disagio non solo non va politicizzato, non va neanche medicalizzato, si risolve tutto in quel piccolo triangolo magico che si stabilisce tra te, la televisione e la pillola. Prendi la pillola e sopporta il mondo. Prendi la pillolina per l’eco-ansia, se serve abbiamo anche la pillolina per l’ansia lieve da precariato, la pillolina per l’ansia lieve da mutuo o d’affitto, la pillolina per l’ansia lieve da licenziamento.Una risposta che vediamo anche nelle reazioni scomposte di molti al video della ragazza: è lei che deve farsi curare, è lei che ha un problema (un gradino sotto ci sono quelli che credano che sia tutta una messinscena, e lei un’attrice che recitato la parte di quella con l’ansia). L’importante è che l’ansia non diventi un elemento del dibattito pubblico: non esiste e se esiste è un problema personale. Quello che non possiamo neanche accettare di chiederci è se ha un collegamento con la nostra società: Perché il punto è quello: l’ansia sta aumentando? E se non sta aumentando (pare di sì), come mai hanno iniziato a farci spot pubblicitari in tv? È solo uno spot, mi ripeto, eppure mentre lo guardo continua a girarmi in testa un’ultima domanda: e quando l’ansia non sarà più lieve? Quando avremo bisogno di farmaci più pesanti, continueremo a ritenerlo un problema personale o ci decideremo finalmente ad affrontare il fatto che la nostra società e il nostro modo di vivere forse hanno un ruolo in tutto questo? Lo faremo, o semplicemente penseremo che siamo noi che non siamo abbastanza “forti” e scenderemo un altro gradino chiedendo ai medici di prescriverci qualcosa di più efficace? Fino a che punto riusciremo, sempre per usare un’espressione di Fisher, a privatizzare lo stress? Quanti gradini ci separano dall’epidemia di fentanyl che negli … Leggi tutto

L’IMPORTANTE NON È VINCERE MA FARE COME CI PARE

Io sono sempre stato favorevole alla politicizzazione di tutto. Dai pugni chiusi alzati al cielo di Smith e Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 a mille altri episodi (hint: per quel gesto vennero squalificati perché già allora le manifestazioni politiche alle olimpiadi erano vietate e più o meno la lora carriera finì lì. Una sorte simile toccò a Peter Norman, arrivato secondo, al suo ritorno in patria, per aver indossato la coccarda di OPHR in segno di solidarietà). Questo per il principio che le Olimpiadi non dovrebbero dare spazio alle manifestazioni politiche, in questa visione idealizzata dello sport come momento di pacificazione mondiale (secondo lo spirito olimpico della Grecia Antica) in cui l’unità dei popoli ha il meglio sulle divisioni e le liti del tempo comune. A volte questo principio si spezza, un atleta decide di infrangere questo principio sacrosanto e mettere a repentaglio la propria vittoria, a volte anche la sua stessa carriera, per portare avanti un altro principio (politico, ideale, umanitario, personale) perché è così che funzionano i principi: sulla carta sono tutti belli, tutti condivisibili e poi li cali nel mondo reale e fanno a cazzotti, così devi decidere quale dei due ha la precedenza: che cos’ha la precedenza? Il rispetto dello spirito olimpico o la mia esigenza di denunciare la violazione di un diritto? Una regola precisa non c’è, ogni atleta lo decide nel suo intimo, secondo la sua coscienza: quanto vale questo mio ideale? Quanto sono disposto a sacrificare per questo mio ideale? Zapotek ad esempio, per aver firmato il manifesto delle duemila parole, finì a lavorare in una miniera di Uranio. Per questo motivo a me gli atleti che trovano il coraggio di spezzare il tempo sospeso delle Olimpiadi per affermare un principio in cui credono sono sempre stati simpatici. Ho sempre rispettato il loro coraggio, anche quando magari ho pensato che quel loro gesto non valesse quella rottura. E ho pensato lo stesso per la schermitrice ucraina Olga Karlhan che si è rifiutata di stringere la mano all’avversaria russa Smirnova. E io un po’ la capisco dal punto di vista personale, un po’ meno dal punto di vista politico ma in fondo quello che mi dico è: ma chi sono io per giudicare una scelta di questo tipo? Altri atleti prima di lei hanno fatto gesti simili, per lanciare un messaggio, sono stati squalificati, hanno rischiato le loro carriere e se ne valeva o meno la pena lo sapevano solo loro. Io posso o meno condividere le loro battaglie politiche o personali ma il rispetto per il coraggio dimostrato glielo riconosco sempre. E per me la vicenda della schermitrice ucraina finiva qui, come tante altre storie di sport di atleti squalificati per aver manifestato le proprie convinzioni politiche durante una competizione sportiva). Poi invece siamo riusciti (noi, non la schermitrice ucraina) a trasformare quello che era un gesto coraggioso e degno di rispetto in una solenne dimostrazione di arroganza che rivela tutta l’idiosincrasia occidentale per le regole, quando a dover rispettarle siamo noi. Ora a me interessa poco delle varie versioni cavillose e puntacazziste con cui si cerca di sminuire un gesto che è e rimane politico e, in quanto politico, è l’unico motivo per cui con esso si può solidarizzare: perché se non è un gesto politico, se è solo il nascondersi dietro i cavilli del regolamento richiamandosi a regole covid o altre scuse, di quel gesto politico non rimane niente, e allora a me, di difenderlo o rispettarlo, non me ne frega niente. Se però è gesto politico, in quanto vietato, deve sottostare alle regole, e le regole prevedono la squalifica. Conta poco anche quello che fa o abbia fatto, al di fuori della pedana, l’atleta russa che, come stabiliscono sempre le regole, ha partecipato senza bandiera, senza inno nazionale, senza inneggiare al suo popolo e senza rivendicazioni personali. Questo è quello che si chiede a un atleta russo e quello che c’è sul suo profilo instagram possiamo andarcelo a spulciare per farci un’idea di chi sia, se ci sta o meno simpatica. Potrebbe essere anche la più fervida sostenitrice di Putin, non è questo che si chiede ad un atleta russo per partecipare in questo momento ad una competizione sportiva (anche se immagino che sia quello che molti desidererebbero); così come non si chiede a un atleta israeliano di prendere le distanze da Netanyahu, a un saudita di dissociarsi da Bin Salman, così come non pretendiamo la non partecipazione di un suprematista bianco. Poi tutti questi possono anche farci profondamente schifo, ma l’unica cosa che chiediamo è che non facciamo mostra delle proprie convinzioni politiche durante la manifestazione. E la russa questo ha fatto, non le era chiesto altro. Le regole servono esattamente a questo: se queste regole non ci fossero, ognuno potrebbe fare il suo comizietto politico, gli atleti russi potrebbero partecipare con il nastro di San Giorgio al petto, qualcuno potrebbe presentarsi con la falce e martello o con un piccolo stemmino nazista ricamato sulla divisa sportiva. Le olimpiadi, e lo sport in generale (e questo lo abbiamo deciso sempre noi), non sono il posto in cui giudichiamo quali simboli ci piacciono e quali no. Sono il posto in cui abbiamo deciso che quei simboli non ci devono stare ed è proprio per questo motivo che fa scalpore tutte le volte che la vita reale, con tutto il suo carico politico, rompe quello spazio. Nel 2016 il judoka egiziano El Shehaby si è rifiutato di stringere la mano all’avversario israeliano Or Sasson a fine gara. È stato squalificato, nonostante il regolamento del judo non preveda la stretta di mano a fine gara ma solamente l’inchino, cosa che l’atleta africano aveva fatto. Ed è probabilmente giusto che sia così se vogliamo che questi gesti di rottura rimangano, appunto, di rottura. Come si fa a rompere qualcosa che non c’è più? Se non c’è regola, il non rispetto della stessa che valore politico ha? Ma noi non abbiamo fatto neanche questo: non abbiamo, cosa che forse … Leggi tutto