Il liberale del tramonto sembra essere l’ultimo stadio evolutivo di quello che una volta era il liberale classico. A essere onesti a definirsi liberale di solito è soltanto lui.
Che sia politico, giornalista, universitario, opinionista pret-a-porter o periferica classe dirigente, solitamente se ne sta lì, purché sia un lì mediamente confortevole, a contemplare indifferente la progressione geometrica delle macerie che gli si accumulano davanti. Arroccato a difesa del suo palazzo giardino ormai cadente, scruta le strane ombre che serpeggiano minacciose nella giungla, che da ogni lato ormai lo circonda, incapace di dar loro forma o nome, e guarda con sospetto ogni erbaccia che fa capolino tra i labirinti di bosso. Poi ispeziona le mura, che all’esame dei suoi occhi miopi non rivelano alcuna crepa, dà un ultimo sguardo al fuori e si conferma che non è la giungla a essersi fatta grande, ma è lui ad essersi fatto piccolo. E così s’addormenta sereno, sognando un giardino ancora più grande.
Più liberista che liberale, ibridatosi lungo percorsi darwinisti eterogenei capaci di traghettarlo sano e salvo dalle fila del PC a quelle di Forza Italia o da quelle di Rifondazione a quelle di Italia Viva, a volte radicale ma quasi sempre radicato nel sottobosco politico, sarebbe oggi forse più corretto definirlo atlantista acritico o, ancora più precisamente, intellettuale autotrofo, che si nutre del suo stesso pensiero trasformandolo in puro vaniloquio egoriferito, d’appoggio al potere a cui s’è temporaneamente consacrato vassallo.
Allo scopo s’è corredato negli anni degli strumenti degni di tale ruolo: armatura di bronzo (spesso limitata alla faccia), titolo (uno qualunque purché suoni bene con il cognome), insensibilità a qualunque principio possa entrare in contrasto col suo interesse personale, e un pantheon retorico variabile che va da Beccaria a Bava Beccaris: oggi disposto a cannoneggiare contro minacciosi polpi di pelouche antisemiti, domani a precipitarsi sull’ultimo libro fascista prima che scada il trending topic sulla libertà di stampa.
Esperto sollevatore di doppi pesi, lo trovi sempre lì a sforbiciare il mondo per ritagliarlo in pezzettini microscopici che diventano testata d’angolo di un mondo nuovo, partorito da lui medesimo ma che meglio s’intona alla cravatta del suo elemosiniere.
Trombone tambroniano, è sempre lesto a giustificare le manganellate della polizia purché i manganellati non abbiano referenti politici tali da mettere in difficoltà lui o la catena di comando da cui dipende la sua sopravvivenza. Ma non si sente cattivo: è soltanto il suo lavoro.
Se giornalista, ha capito per tempo che la vita del cane da guardia è molto più faticosa di quella del cane da riporto. Se non giornalista, uguale.
E adesso che il riporto è diventato questione tricotica più che politica, si guarda allo specchio e si dice ancora piacente (è forse questa la sua caratteristica principale: il sunset libera si parla). Aggiusta la bretella, si stringe la vestaglia, scende maestosamente le scale ringraziando i presenti, guarda la telecamera e declama sorridendo:
Eccomi De Mille, sono pronto per il mio piano piano.