SDS#169 – LETTERINA A BABBO NATALE 2024

Caro Babbo Natale, io penso che le letterine tu non te le smazzi tutte da solo ma tieni una redazione tipo Repubblica che le legge al posto tuo e fa casino, sennò non si spiega.
Io l’anno scorso ti avevo chiesto se nel 2024 facevi finire questa cosa orribile dei bambini sotto le bombe, ma io intendevo che dovevano finire le bombe, non i bambini. Adesso che lo sai vedi di correggere il tiro (delle bombe, che così se non altro colpiscono a vuoto).
Poi ti avevo chiesto pure di risolvere quest’anomalia post-fascista della Meloni al governo; in effetti devo dire che, se guardo in giro per il mondo, non è più un’anomalia: ma non mi sembra un grosso miglioramento! È come se per far arrivare un treno in orario lo fai partire prima!
Io ti avevo scritto pure che vista la situazione ci serviva un’opposizione coi superpoteri ma tu, di tutti i superpoteri disponibili nei fumetti di supereroi, gli dovevi dare proprio l’invisibilità? Ma possiamo andare in giro a spargere borotalco per vedere dove sta?
L’altra cosa che ti avevo chiesto è di mettere una pezza a questa storia dell’informazione spazzatura dei giornali e delle tv e su questo mi hai ascoltato: adesso c’è solo la spazzatura, almeno uno evita di fare confusione e di farsi delle illusioni.
Visto come è andata quest’anno non lo so se è il caso di chiederti qualcosa per l’anno nuovo, ma ci provo: come prima cosa ti chiedo di cambiare redazione: non è che Molinari adesso lavora da te? Magari si nasconde, ma per scoprirlo ecco un semplice test:
Metti tutti i folletti in fila e inizia a prenderli a schiaffi, senza spiegazioni, uno alla volta. Se uno inizia a piangere e dice che è un attacco antisemita, è Molinari! Licenzialo! Se invece ti dicono che sei stronzo è normale, non si picchiano i folletti a buffo!
Sta attento, quando arrivi, che è entrato in vigore il nuovo codice della strada e secondo me la slitta è tipo un monopattino grosso quindi ti devi mettere il casco. E spiega ai folletti che non se possono fa’ le canne manco una settimana prima della partenza.
Ai politici porta dei giochi di guerra che sto periodo stanno in fissa ma magari così si distraggono da quella vera. Mi raccomando, non più di quello; guarda l’anno scorso che è successo per una pistola giocattolo, direi che non puoi andare oltre il livello superliquidator.
Quest’anno ti avrei chiesto di fare un regalo anche ai nostri ministri, ma quelli se lo sono fatti da soli e si sono aumentati lo stipendio, direi che può bastare così. Per la povera pensionata comune invece niente, vedi se almeno riesci a farla ministra per un paio di mesi!
A noi altri invece portaci un’armatura. Se proprio le cose devono andare in questo modo e non c’è verso di farle andare diversamente (e pare proprio che non ci sia), almeno portaci un’armatura indistruttibile tipo quella dei cavalieri dello Zodiaco.
Una cosa capace di resistere alle bombe, alle radiazioni, alle cacche dei piccioni e alle cattiverie tutte di questo mondo. Un’armatura per difenderci che quando vai al lavoro sei sicuro di tornare a casa con tutti gli arti attaccati.
Deve essere una cosa che serve per sopravvivere e andare avanti, ma una roba figa tipo quella di Iron Man, che se ce la facciamo noi da soli è più facile che viene fuori con la visiera di cartone come quella di Don Chisciotte.
Ma soprattutto deve essere un’armatura resistente allo schifo, che tutto lo schifo e l’odio che circolano oggi ti si attaccano addosso e non se ne vanno via manco con la doccia. Ti entrano dentro, ti infettano, e ti fanno ammalare di schifo.
E quando ti ammali di schifo quello cresce come una colla e ti diventano i piedi appiccicosi che per fare un passo ci vuole un quarto d’ora, gli occhi cisposi, le mani di vinavil, pure la bocca ti si appiccicano le parole sulla lingua che ti passa perfino la voglia di parlare.
E quelli lo schifo te lo tirano addosso apposta, che dopo una certa quota di schifo diventi muto e muto ti vogliono. Che te ne stai lì concentrato sullo schifo tuo e se vedi un altro sommerso di schifo ti viene paura che a toccarlo ti attacchi pure la parte sua; e l’allontani.
E invece tu portarci quest’armatura magica che ci rende invincibili così possiamo surfare sopra a quest’alluvione di merda e ridere in faccia a quelli che ci vorrebbero disperati. E ci potranno tirare addosso tutto quello che vogliono che tanto noi abbiamo l’armatura.
Dev’essere inattaccabile e però mettici pure un punto di pressione segreto che non lo sa nessuno qual è, ma se uno lo preme ridiventiamo vulnerabili e ci ritroviamo a piangere dopo tre giorni per le cose più sceme, tipo come quando un ricordo ti prende di sorpresa.
Tipo quando stai lì che pieghi i maglioni da mettere nell’armadio, metti sui fornelli l’acqua per la pasta, fai la stessa strada di tutti i giorni o cammini in mezzo a un bosco e te lo ritrovi davanti, senza preavviso, quel ricordo là. E allora piangi, con tutta l’armatura.
Lasciacelo, questo buco, che è pericoloso ma altrimenti c’è il rischio che moriamo spavaldi senza manco ricordarci di essere stati vivi. E se un’armatura così non ce l’hai, portaci le lacrime che servono e la voglia di ridere e vedremo di farcele bastare.
Ci faremo un’armatura di cartone da noi, come Don Chisciotte; e annasperemo in questo mare tragico come meglio possiamo, sfideremo il cielo con un cavalluccio a dondolo e una spada di legno. Rimonteremo in sella e, lancia in resta, torneremo a farci rompere la testa.

DISSACRARE ISRAELE

In questi giorni mi è capitato di incrociare diversi post su X che, in un modo o nell’altro, ponevano con urgenza il tema della scelta (e della conseguente necessità di schierarsi) sui fatti di Gaza. Tra questi ne citerò soltanto due non perché siano i più illuminanti ma perché fanno riferimento a due concetti che mi serviranno in questa riflessione: il primo è il post di Gianluca Martino, nel quale la domanda (e l’urgenza) era posta in maniera molto chiara: l’Occidente è chiamato a scegliere tra Israele e i princìpi sui quali ha strutturato la sua esistenza. Ora di questi principi potremmo discutere a lungo: il diritto e le organizzazioni internazionali e forse, sopra a tutto, il riconoscimento della prevalenza del diritto rispetto alla forza bruta. Sono princìpi e strutture precari, imperfetti, che troppe volte abbiamo disatteso e aggirato ma senza mai metterne in discussione la necessità. Può sembrare una posizione ipocrita e sicuramente molte volte lo è stata, ma in quell’ipocrisia c’è anche la consapevolezza che, esauriti i mezzi della diplomazia e del diritto, quello che resta è la feroce legge del più forte. Tutto questo, per brevità, lo riassumerò da qui in poi con la formula “principi democratici”. L’altro è un articolo di Matteo Nucci apparso qualche giorno fa su minima&moralia in cui era presente una parola che già avevo in testa da un paio di giorni. Quella parola è “sacrificio”. Ci tornerò alla fine ma prima devo fare una premessa: le guerre non si fanno per i motivi di cui parlerò fra poco, ma per questioni molto più materiali (economiche e geopolitiche) di cui lascio ad altri il compito di parlare; però le guerre, esclusi quattro lobbisti delle armi e un manipolo di esaltati, non piacciono quasi a nessuno. Hanno perciò bisogno di una costruzione di senso che le renda se non auspicabili quanto meno sopportabili all’opinione pubblica, soprattutto nei paesi che necessitano di una certa quota di consenso della popolazione per governare. Questa riflessione è dedicata a questo aspetto: al come ci stiamo raccontando quello che accade e al perché ce lo stiamo, o meglio, ce lo stanno raccontando in questo modo. I recenti fatti di Amsterdam – e la copertura scandalosa, la cui evidenza ormai mi pare più che assodata, che ne è stata data dai media tradizionali – sembrano in qualche modo un’accelerazione e al tempo stesso una cesura di questo processo narrativo; credo quindi che sia il caso di fermarsi un attimo a riflettere su un punto: di cosa parliamo davvero quando parliamo di antisemitismo? Questo ha molto poco a che fare (dal punto di vista delle cause materiali) con i fatti di Gaza e molto a che fare con noi; le narrazioni non causano le guerre, di solito si usano per giustificarle, ma esse stesse rischiano di assumere vita propria come i mostri del sottosopra di Stranger Things ed esondare nel reale; un’accozzaglia confusa di slogan eterogenei del secolo scorso, appoggiata inizialmente dagli industriali italiani con l’obiettivo di ostacolare le proteste operaie, è diventata poi uno dei blueprint dei peggiori totalitarismi del secolo scorso i cui strascichi, dal punto di vista ideologico, paghiamo ancora oggi. Quegli eventi, tra le altre cose, hanno contribuito a produrre quello che consideriamo come male assoluto del ventesimo secolo o, per dirla con Durkheim, la più sacra delle cose sacre non religiose: la Shoah. Il sacro può essere positivo o, come nel caso dei tabù, negativo, ma ha sempre come caratteristiche fondamentali la straordinarietà rispetto al quotidiano e l’isolamento dalle cose profane. La Shoah non è certo l’unico oggetto sacro dell’Occidente: l’antifascismo (anche se oggi sempre meno), le Fosse Ardeatine, il nazismo, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il motto della Rivoluzione Francese, sono tutti oggetti sacri che hanno il compito di definire le comunità che li riconoscono come tali; non attengono al rapporto tra l’individuo e una qualche divinità ma solo un insieme simbolico che danno senso alla vita collettiva di chi li riconosce come tali. Chi osa profanarli o avvicinarli in maniera impropria è emarginato dal consesso civile come è necessario che sia. So bene che a volte così non sembra, ma non a caso gli attacchi o gli avvicinamenti a questi oggetti sono quasi sempre indiretti, tangenziali e abbastanza ambigui da poter essere ritrattati di fronte alla comunità cui si appartiene; non potrebbe essere altrimenti perché, se la comunità non accetta il sacrilegio, il rischio è quello di finire al rogo. D’altronde gli oggetti sacri non restano sacri per sempre, lo abbiamo visto in questi anni con l’antifascismo che a forza di eresie tollerate sta pian piano scivolando fuori del nostro pantheon condiviso; il paradosso del binomio sacro nazismo/Shoah è che, mentre da un lato abbiamo assistito nel corso degli anni a un progressivo restringimento degli interdetti nazisti, dall’altro c’è stato un allargamento degli oggetti sacri connessi alla Shoah: i campi di sterminio, quelli di concentramento, la stella di David, l’antisemitismo, le testimonianze, i testimoni, gli ebrei in senso lato, le pietre di inciampo, Liliana Segre, il murale di Liliana Segre a Milano, l’unilaterale diritto di difendersi, il naso di Elly Schlein, il polpo di pelouche di Greta Thumberg, eccetera. Logica avrebbe voluto che a una maggior sensibilità all’antisemitismo e al suo conseguente allargamento semantico corrispondesse un pari allargamento degli interdetti relativi al nazismo, eppure così non è stato: lo segnalo perché il fatto che ciò non sia avvenuto non mi sembra essere del tutto casuale e ancor meno casuale mi sembra il fatto che la maggior parte delle forte politiche che negli anni hanno provato a flirtare con quegli interdetti oggi siano tra i convinti sostenitori di Israele. Uno di questi oggetti sacri che si è imposto con sempre maggiore forza nel corso degli ultimi decenni è l’Israele dell’Olocausto: non l’Israele reale, fisico, politico, fatto di persone in carne e ossa con le proprie responsabilità individuali, di popolo e di Stato, ma un Israele che nell’immaginario collettivo di parte dell’Occidente non può essere scisso dai tragici fatti della seconda guerra mondiale, in primis forse per … Leggi tutto