DISSACRARE ISRAELE

In questi giorni mi è capitato di incrociare diversi post su X che, in un modo o nell’altro, ponevano con urgenza il tema della scelta (e della conseguente necessità di schierarsi) sui fatti di Gaza. Tra questi ne citerò soltanto due non perché siano i più illuminanti ma perché fanno riferimento a due concetti che mi serviranno in questa riflessione: il primo è il post di Gianluca Martino, nel quale la domanda (e l’urgenza) era posta in maniera molto chiara: l’Occidente è chiamato a scegliere tra Israele e i princìpi sui quali ha strutturato la sua esistenza. Ora di questi principi potremmo discutere a lungo: il diritto e le organizzazioni internazionali e forse, sopra a tutto, il riconoscimento della prevalenza del diritto rispetto alla forza bruta. Sono princìpi e strutture precari, imperfetti, che troppe volte abbiamo disatteso e aggirato ma senza mai metterne in discussione la necessità. Può sembrare una posizione ipocrita e sicuramente molte volte lo è stata, ma in quell’ipocrisia c’è anche la consapevolezza che, esauriti i mezzi della diplomazia e del diritto, quello che resta è la feroce legge del più forte. Tutto questo, per brevità, lo riassumerò da qui in poi con la formula “principi democratici”. L’altro è un articolo di Matteo Nucci apparso qualche giorno fa su minima&moralia in cui era presente una parola che già avevo in testa da un paio di giorni. Quella parola è “sacrificio”. Ci tornerò alla fine ma prima devo fare una premessa: le guerre non si fanno per i motivi di cui parlerò fra poco, ma per questioni molto più materiali (economiche e geopolitiche) di cui lascio ad altri il compito di parlare; però le guerre, esclusi quattro lobbisti delle armi e un manipolo di esaltati, non piacciono quasi a nessuno. Hanno perciò bisogno di una costruzione di senso che le renda se non auspicabili quanto meno sopportabili all’opinione pubblica, soprattutto nei paesi che necessitano di una certa quota di consenso della popolazione per governare. Questa riflessione è dedicata a questo aspetto: al come ci stiamo raccontando quello che accade e al perché ce lo stiamo, o meglio, ce lo stanno raccontando in questo modo. I recenti fatti di Amsterdam – e la copertura scandalosa, la cui evidenza ormai mi pare più che assodata, che ne è stata data dai media tradizionali – sembrano in qualche modo un’accelerazione e al tempo stesso una cesura di questo processo narrativo; credo quindi che sia il caso di fermarsi un attimo a riflettere su un punto: di cosa parliamo davvero quando parliamo di antisemitismo? Questo ha molto poco a che fare (dal punto di vista delle cause materiali) con i fatti di Gaza e molto a che fare con noi; le narrazioni non causano le guerre, di solito si usano per giustificarle, ma esse stesse rischiano di assumere vita propria come i mostri del sottosopra di Stranger Things ed esondare nel reale; un’accozzaglia confusa di slogan eterogenei del secolo scorso, appoggiata inizialmente dagli industriali italiani con l’obiettivo di ostacolare le proteste operaie, è diventata poi uno dei blueprint dei peggiori totalitarismi del secolo scorso i cui strascichi, dal punto di vista ideologico, paghiamo ancora oggi. Quegli eventi, tra le altre cose, hanno contribuito a produrre quello che consideriamo come male assoluto del ventesimo secolo o, per dirla con Durkheim, la più sacra delle cose sacre non religiose: la Shoah. Il sacro può essere positivo o, come nel caso dei tabù, negativo, ma ha sempre come caratteristiche fondamentali la straordinarietà rispetto al quotidiano e l’isolamento dalle cose profane. La Shoah non è certo l’unico oggetto sacro dell’Occidente: l’antifascismo (anche se oggi sempre meno), le Fosse Ardeatine, il nazismo, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il motto della Rivoluzione Francese, sono tutti oggetti sacri che hanno il compito di definire le comunità che li riconoscono come tali; non attengono al rapporto tra l’individuo e una qualche divinità ma solo un insieme simbolico che danno senso alla vita collettiva di chi li riconosce come tali. Chi osa profanarli o avvicinarli in maniera impropria è emarginato dal consesso civile come è necessario che sia. So bene che a volte così non sembra, ma non a caso gli attacchi o gli avvicinamenti a questi oggetti sono quasi sempre indiretti, tangenziali e abbastanza ambigui da poter essere ritrattati di fronte alla comunità cui si appartiene; non potrebbe essere altrimenti perché, se la comunità non accetta il sacrilegio, il rischio è quello di finire al rogo. D’altronde gli oggetti sacri non restano sacri per sempre, lo abbiamo visto in questi anni con l’antifascismo che a forza di eresie tollerate sta pian piano scivolando fuori del nostro pantheon condiviso; il paradosso del binomio sacro nazismo/Shoah è che, mentre da un lato abbiamo assistito nel corso degli anni a un progressivo restringimento degli interdetti nazisti, dall’altro c’è stato un allargamento degli oggetti sacri connessi alla Shoah: i campi di sterminio, quelli di concentramento, la stella di David, l’antisemitismo, le testimonianze, i testimoni, gli ebrei in senso lato, le pietre di inciampo, Liliana Segre, il murale di Liliana Segre a Milano, l’unilaterale diritto di difendersi, il naso di Elly Schlein, il polpo di pelouche di Greta Thumberg, eccetera. Logica avrebbe voluto che a una maggior sensibilità all’antisemitismo e al suo conseguente allargamento semantico corrispondesse un pari allargamento degli interdetti relativi al nazismo, eppure così non è stato: lo segnalo perché il fatto che ciò non sia avvenuto non mi sembra essere del tutto casuale e ancor meno casuale mi sembra il fatto che la maggior parte delle forte politiche che negli anni hanno provato a flirtare con quegli interdetti oggi siano tra i convinti sostenitori di Israele. Uno di questi oggetti sacri che si è imposto con sempre maggiore forza nel corso degli ultimi decenni è l’Israele dell’Olocausto: non l’Israele reale, fisico, politico, fatto di persone in carne e ossa con le proprie responsabilità individuali, di popolo e di Stato, ma un Israele che nell’immaginario collettivo di parte dell’Occidente non può essere scisso dai tragici fatti della seconda guerra mondiale, in primis forse per … Leggi tutto