MORIRE DI TERRORE

Oggi vi racconterò una storia. Forse qualcuno di voi la conosce già, molti probabilmente no. È la storia della Grande Marcia del Ritorno. Come tutte le storie che ascolterete in questi giorni, è un pezzo della Storia tutta, e un pezzo da solo non può spiegare 70 anni di conflitto. Questa storia può però aiutare a rispondere a una domanda che molti in questi giorni ripetono ossessivamente: ma perché i palestinesi non scelgono le proteste pacifiche? Questa è la storia di quando i palestinesi scelsero di protestare pacificamente. È il 2018 e l’America di Trump si prepara a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, nonostante la capitale riconosciuta a livello internazionale sia Tel Aviv e l’ONU abbia stabilito l’illegalità dell’occupazione di Gerusalemme Est e dei territori limitrofi (è il Tribunale Internazionale dell’Aja che la definisce “nazione occupante”, non io, ma questa è un’altra storia). A questo punto a Gaza la popolazione inizia una protesta, che prenderà il nome di Grande Marcia del Ritorno. Gaza è una striscia di terreno di una quarantina di chilometri, da più di quindici anni completamente isolata dal mondo, sempre a un passo dalla catastrofe umanitaria, circondata da una recinzione militarizzata e dalla quale non è possibile allontanarsi. Dentro questo campo di concentramento, probabilmente il più grande della storia contemporanea, vivono 2 milioni e trecentomila persone. Quasi la metà di questi sono minori, quasi il 70% della popolazione di Gaza ha i genitori che sono arrivati qua dopo essere stati costretti a fuggire dai territori conquistai e occupati da Israele. La manifestazione si chiama “grande marcia del ritorno” proprio per questo: è una protesta pacifica per affermare il diritto dei rifugiati a tornare nei territori che sono stati loro sottratti.Le proteste iniziano il 18 marzo del 2018 e proseguono fino a metà maggio (giorno del trasferimento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme) e oltre, tutti i venerdì, una specie di Friday for Future in salsa palestinese in cui si chiede il rispetto del diritto dei profughi e la fine del blocco che sta strangolando Gaza. Sono proteste a cui partecipano circa 35mila persone. Alla fine delle proteste si conteranno più di 250 morti (tra cui una cinquantina di bambini). Tra le vittime ci sono anche tre medici e due giornalisti. I feriti sono così tanti che è difficile anche quantificarli: si va dai diecimila agli oltre trentamila, anche in questi casi migliaia di essi sono bambini sotto i quattordici anni. Tutti palestinesi. Alla fine delle proteste non si registrerà un solo israeliano ucciso o ferito gravemente (un solo soldato con escoriazioni lievi). E credo che questo, almeno in parte, possa contribuire a rispondere alla domanda iniziale. Quando a un manifestante pacifico rispondi con le fucilate, in sostanza stai dicendo a quel manifestante che il modo in cui protesta è irrilevante. In scala più grande lo ritroviamo anche con l’ANP, che in cambio dell’abbandono dei metodi violenti ha ricevuto in cambio esattamente niente, ormai ridotta a fare da polizia amministrativa del regime israeliano in un territorio sempre più frammentato dalla continua espansione a macchia di leopardo dei nuovi insediamenti dei coloni e in cui i palestinesi (e gli arabi in generale) vivono in regime di apartheid. O i numeri stessi dei morti e dei feriti degli ultimi anni che, anche al lordo degli attacchi terroristici, ci dicono come il “diritto alla difesa” di Israele si sia trasformato negli anni in un diritto di rappresaglia, ovvero una cosa che non il diritto non ha nessuna relazione.  Questa è una storia, una storia che non racconta tutta la Storia degli ultimi 70 anni e oltre, come tutte le storie che ascolterete in questi giorni. Una di storia di parte, come tutte le storie che ascolterete in questi giorni. Neanche questa storia è un inizio di qualcosa, come non lo è quello che è accaduto in questi giorni. Ma è una di quelle storie che di solito ci dimentichiamo di raccontare e sulle quali l’Occidente è disposto a chiudere gli occhi (e io non credo che l’Occidente possa muoversi con gli occhi chiusi in un contesto come questo). È un processo di rimozione collettivo che non è casuale, ma che serve appunto a negare la realtà dei fatti, perché solamente in una realtà artificiale si può raggiungere un totale stato di indifferenza da riuscire a considerare normale l’organizzazione di un rave a cinque chilometri da un campo di concentramento (e nonostante questo penso che nessuno meriti di essere trucidato semplicemente perché è talmente anestetizzato da non rendersene conto).   Perché in questi giorni di cose ne sono accadute tante, di legittime e di illegittime e lo sforzo dovrebbe essere quello di distinguerle, di provare a comprenderle rifuggendo la tentazione del richiamo alle guerre sante, alle crociate per la libertà, eccetera. Se quindi siete capitati in cerca di una condanna del terrorismo, la troverete, alla fine di questo ragionamento, non prima, e molto probabilmente non vi piacerà. Perché ci sono alcune cose che dobbiamo tenere presenti, se vogliamo provare a inserire un qualunque ragionamento all’interno della cornice del diritto internazionale (se ancora ci interessa il diritto internazionale) e una di queste è la seguente: che un popolo “ha il diritto inalienabile a lottare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla occupazione straniera con tutti i mezzi a disposizione, compresa la lotta armata”. Compresa la lotta armata, come stabilito dall’ONU, non da me. Quindi, se siete venuti qui pensando che il terrorismo e la lotta armata siano la stessa cosa, mi dispiace darvi una brutta notizia: possiamo discutere se la lotta armata sia utile al raggiungimento di determinati obiettivi, se in alcuni contesti esistano alternative praticabili ad essa, e preferibili, ma non della sua legittimità (e al massimo possiamo limitarci ad una discussione teorica sull’argomento perché non me pare il caso di pretendere di imporre a un popolo la modalità con cui deve liberarsi dell’occupante).La seconda cosa che dobbiamo tenere presente, in un contesto di occupazione, che le modalità dello scontro sono decise per lo più dall’occupante … Leggi tutto